mercoledì 7 agosto 2013

L'Azzurro dopo un'estate giovane e rosada

Dopo il 2004 d'argento, la salute di tutto il movimento cestistico italiano è stata decisamente calante, sia a livello maschile, che femminile. Se l'Olimpiade di Atene rappresenta infatti il punto più alto della storia della Nazionale maschile dall'Olimpiade di Mosca '80 (e punto d'arrivo di buona parte di una grande generazione di cestisti che aveva portato l'oro continentale a casa nel 1999) che poi fu invece solo la premessa per un grande baratro, la rappresentativa femminile mancava l'appuntamento addirittura con gli Europei dal 2001. Le ragazze potranno infatti tornare a disputare i campionati continentali solo nel 2007 (con la scusa però che li organizzavamo noi) e hanno vinto la medaglia d'oro nell'ormai lontano 1938, conquistando solo un argento nel 1995.
Insomma, dopo aver addirittura mancato la qualificazione all'Eurobasket 2009, scendere più in basso di così sarebbe stato impossibile: da lì, infatti si poteva solo risalire e la strada intrapresa sembra essere finalmente buona per tutto il movimento.
Vorrei però cominciare dalle Azzurre, a mio modo di vedere più sorprendenti dei loro "colleghi" maschi per via della scarsissima importanza che, purtroppo, viene data al basket femminile nel nostro Paese.
La Nazionale italiana agli Europei 2013
In due anni di gestione Ricchini, l'Italbasket femminile si è qualificata perdendo una sola partita di qualificazione agli Europei nel 2012 e si è presentata quest'anno all'appuntamento in Francia con una squadra giovanissima, guidata sì dalle esperte Raffaella Masciadri e Kathrin Ress (che comunque è una 1985), ma infarcita di giovanissimi elementi come Sabrina Cinili (classe 1989) e, soprattutto, Francesca Dotto (classe 1993), una delle migliori giocatrici europee Under 20 in circolazione. Queste ragazze hanno fatto emozionare: esordio vincente - a sorpresa - contro la Svezia, battute dall'imbattibile Spagna di Amaya Valdemoro, le Azzurre, hanno sfiorato la qualificazione ai Mondiali per un soffio, perdendo di un nulla (solo 4 punti) contro la forte Repubblica Ceca (seconda ai Mondiali 2010 dietro gli USA) e dando l'impressione di potersela giocare con tutti e conquistando, pur con tantissime occasioni perse, un ragguardevole ottavo posto che fa ben sperare per il futuro: la squadra c'è i giovani elementi (e quindi il futuro) ci sono, e hanno fatto importanti esperienze.
Ma la soddisfazione più grande è arrivata qualche giorno dopo. E anche qui c'è la firma del colpevole: Francesca Dotto.
Francesca Dotto, nata nel 1993, è una
delle migliori esterne europee. Gioca a
Lucca dal 2012
Questa playmaker alta 1,69 ha letteralmente trascinato con 12,6 punti, 2,8 assist e 3,1 rubate a partita l'Italia ad una storica finale (persa anche lì di un soffio, per 53-59, ma con un terzo quarto, purtroppo da 3-20!) con la Spagna pigliatutto. Meglio di così, cosa si può chiedere?
Una Nazionale giovane, ragazze esperte e brave, uno dei migliori e più giovani prospetti europei in squadra (che fa due competizioni continentali in un anno, tra l'altro). Avanti così, Azzurre: il futuro dopo tanto tempo, è roseo!
Anche la situazione dei maschi è più buona rispetto al recente passato. La Nazionale U20 è addirittura riuscita nella storica impresa stavolta, di laurearsi Campione d'Europa! Amedeo Della Valle, un ragazzo di 196 cm di Alba, che gioca in NCAA ad Ohio State è stato addirittura nominato MVP del torneo, ed è riuscito più volte nell'impresa - ci sia permesso di dargli il soprannome che un tempo fu di Jerry West - di comportarsi da vero e proprio Mr. Clutc, di giocatore cui passare la palla per l'ultimo tiro: buzzer beater con la Spagna, replica in condizioni impossibili contro la Lituania per il supplementare ai quarti, splendida finale con 19 punti contro la mai doma Lettonia di un grande Janis Berzins (sentiremo probabilmente parlare di lui) in pochissimi giorni. Assieme a lui, un buonissimo gruppo, quello costruito da Stefano Sacripanti: Abass, Lombardi, Imbrò, Tonut sono buoni altleti, e soprattutto alcuni pezzi pregiati del nostro futuro cestistico. Meritano più spazio in campo nei Club, e si spera che lo possano sempre più dimostrare giorno dopo giorno.
MVP! Amedeo Della Valle
Il discorso sulla Nazionale A maschile è ogni giorno più complesso. Se è vero infatti che abbiamo quattro giocatori in NBA (nell'ordine: Bargnani, Belinelli, Gallinari e il freshman Datome) e premesso che comunque questa cosa non fa la differenza, anche e soprattutto alla luce dell'infortunio di Gallinari, seguire ogni giorno le notizie che giungono da Folgaria è sempre più distruttivo sotto l'aspetto psicologico. Sembra, infatti, che ogni giorno che passa e ci avvicini alla rassegna continentale, sia sempre più negativa la situazione per la squadra di Pianigiani.
Partita con un minimo di aspettative, alla luce dei successi delle giovanili e con la presenza (finalmente) di tutti gli "ameriKani" (per Gallo si è già detto), tutti con qualcosa  da dimostrare, con l'impatto di Daniel Hackett e la naturalizzazione di un talento come Trevis Diener, il destino degli Azzurri sembrava essere onestamente molto buono sulla strada che doveva portarci a Madrid il prossimo anno. Ci sono talento, fame, buoni giocatori che se amalgamati bene possono fare altrettanto.
E invece!! Dal forfait ingiustificato (lui dice su Twitter che è per recuperare da un infortunio) del talentuoso e coriaceo DaniBoy, all'abbandono di Polonara, fino a passare all'"infezione delle vie respiratorie" (parole del sito della FIP) di Bargnani, le notizie sono sempre più nefaste. Fu così anche alla partenza della Nazionale per i Mondiali del 2006, quando la Nazionale più forte di sempre (parole stavolta della Gazzetta dello Sport) venne beffardamente sbattuta fuori dalla Lituania per 68-71 agli ottavi al termine di una partita inguardabile da parte nostra e conclusasi con uno 0/3 ai tiri liberi concessi (molto generosamente) a tempo scaduto al nostro Gianluca Basile. Stavolta speriamo che l'esito sia diverso. Pur senza la forza di Gallinari e gli attributi di Hackett, ci sono Diener, Aradori, Cusin, Belinelli, Gigli, Datome. Tutti ragazzi che hanno provato ad imporsi e hanno ritagliato minuti importanti nei loro club, e che vantano anche minuti ed esperienze importanti tra qualificazioni europee dello scorso anno (mirabile cammino) e Eurolega (sponda Cantù/Milano). Sì, ci possiamo credere. Bargnani (speriamo) permettendo, e con impegno e buona volontà, i ragazzi di Pianigiani possono conquistare il Mondiale 2014.
Si comincia il 4 settembre a Capodistria con la Russia, c'è da arrivare tra le prime tre assieme a Turchia, Grecia, Svezia e Finlandia: non semplice, ma fattibile. Se c'è il gruppo, crediamoci, che tra le prime sette (la Spagna, possibilmente una delle favorite, è già qualificata al Mondiale poiché lo ospita) ci si può arrivare.

FORZA AZZURRI!!!

La Nazionale 2013 (al netto dei tagliati e degli assenti)

giovedì 27 giugno 2013

Nazione e sport: La Partita della morte e altre storie

Anche nel mondo globalizzato di oggi, dove si continua ad affermare che non esistono più né confini, né barriere, in realtà si tende a dimenticare che la cultura e l'identità di un individuo sono elementi ben chiari e scolpiti nel cuore e nella mente delle persone.
Sicuramente, nella definizione di ciascuno di noi, e per rispondere alla domanda "chi sono io", è importante anche il concetto di nazione, definita come
comunità di individui che condividono caratteristiche comuni quali la lingua, il luogo geografico, la storia ed un governo [Wikipedia, "Nazione"]
 Questa è una cosa da non sottovalutare mai, nemmeno nel mondo dello sport. Perché ci sono momenti nei quali il destino ti mette di fronte sul campo a delle occasioni storiche, che per la gioia di te stesso e del tuo paese vengono trasformati in imprese degne di nota e di memoria per le generazioni future, poiché scrivendo una parte della storia sportiva della nazionale, si tramanda anche, più o meno simbolicamente, una pagina di storia della propria nazione.
La locandina della "Partita della morte"
Sicuramente, un posto di primo piano in queste partite che significano più di una partita ha un posto privilegiato la purtroppo tristemente famosa Partita della morte. Partita di calcio giocata il 9 agosto del 1942 nell'Ucraina occupata dalla Germania Nazista, questa vide una selezione dei giocatori delle squadre della Dinamo e del Locomotiv di Kiev che lavoravano come prigionieri in alcune fabbriche di pane, contro una selezione di ufficiali tedeschi della Luftwaffe. Doveva essere questa una rivincita, dato che i tedeschi avevano perso il mese prima una partita per 5-1 contro gli ucraini, solo che questa volta i tedeschi chiamano tutti gli ufficiali che sapessero giocare a pallone. L'arbitro stesso, sarà un ufficiale delle SS. Lo scopo è chiaro: occorre dimostrare la superiorità dei tedeschi contro i popoli slavi (l'incontro in realtà rientrava a far parte di un torneo ben più articolato, dove avevano partecipato squadre magiare, rumene e anche ucraine), razza inferiore, e per giunta, degna di essere sottomessa, sul campo sportivo come sul campo di battaglia.
Gli operai ucraini, veri giocatori, accettano, si affronteranno lo Start Kiev contro la Flakelf (un qualcosa come "gli undici della contraerea"), allo stadio Zenith della capitale (quello che oggi è lo Stadio Olimpico di Kiev, finale degli Europei di calcio del 2012 tra Spagna e Italia) pieno esclusivamente di ufficiali germanici venuti ad assistere una partita che si sarebbe sicuramente conclusa con una vittoria dei dominatori. La partita inizia subito bene per la selezione tedesca, che va presto in vantaggio 1-0, anche perché volano botte da orbi e l'arbitro, naturalmente, appare essere quantomeno... Distratto. Per la cronaca, gli ucraini ad inizio partita si erano anche rifiutati di fare il saluto nazista al Führer, com'era invece tradizione prima di qualunque match.
Nonostante ciò, gli ucraini rifiutano l'ineluttabile, e chiudono il primo tempo addirittura in vantaggio per 3-1, con doppietta del grande Honcarenko, sorprendendo i nazisti in campo e sugli spalti. Nell'intervallo, un ufficiale tedesco munito di interprete entra nella baracca dello Start (altro che spogliatoi!), intimandogli chiaramente che se i tedeschi comunque non avevano niente da perdere (era solo una partita di calcio, dopotutto), se loro, gli inferiori, gli avessero battuti, avrebbero perso molto, molto di più.
La partita ricomincia, e i tedeschi agguantano il pareggio, siamo sul 3-3, con la squadra di casa che sembra oramai rassegnata, viste anche le minacce ricevute. E' a quel punto però che gli ucraini, più forti, semplicemente rifiutano di perdere: si rifanno sotto, e fanno 5-3, punteggio col quale terminerà la gara. Addirittura si narra di un gol non fatto, il sesto, nel fare il quale Klimenko scartò mezza squadra avversaria, portiere compreso, per fermarsi esattamente sulla linea di porta, girarsi, e calciare verso il centro del campo.
Era troppo, davvero troppo per i tedeschi. Appena finita la partita, Korotchich, un altro attaccante, venne subito portato via e fucilato. Altri sette, presi nei giorni successivi, verranno mandati nel lager, mentre il portiere e altri giocatori, verranno uccisi per rappresaglia nei giorni successivi. Makar Honcharenko (quello del 3-1) rimase uno dei pochi superstiti. Morì nel 1997 a Kiev, e il popolo ucraino gli fu talmente grato che allo Stadio Olimpico di Kiev c'è una targa che lo ricorda "A uno che se lo merita", assieme a tante statue che ricordano la dolorosa impresa nella capitale e in diverse città dell'Ucraina.
Lo sport, come detto, riserva altre storie, per fortuna meno tragiche della Partita della morte. Eccone di seguito una selezione di cinque, più o meno significative, tra calcio e Pallacanestro.

Amburgo, 22 giugno 1974 - Coppa del Mondo di Calcio: Germania Est - Germania Ovest 1-0. Unico ed importante confronto calcistico della storia tra le nazionali della due Germanie. Si gioca a Amburgo, la partita è l'ultima del girone Girone A. La Germania Ovest di Müller e Beckenbauer, che gioca in casa e alzerà poi la coppa davanti all'Olanda di Cruijff, ha 4 punti e arriva alla partita da imbattuta, ha superato infatti il Cile e l'Australia. Anche la Germania Est è già qualificata, con 3, resta solo da decidere chi passerà per prima nel girone, inoltre gioca contro i capitalisti di Bonn, e non è uno stimolo da poco. Ci pensa Sparwasser al 77°: un lancio lungo lo serve dalla destra, lui entra in area al termine di una cavalcata partita da metà campo, lascia lì un difensore occidentale e calcia dal limite dell'area piccola un violento destro che si infila sotto il sette. Uno dei pochi alti momenti dello sport di squadra tedesco orientale, al di fuori della pallavolo.

Monaco di Baviera, 9 settembre 1972 - Torneo Olimpico di Pallacanestro: Unione Sovietica - Stati Uniti 51-50.

Partita storica e famosissima, per diversi motivi. Non fu solo la prima sconfitta riportata dalla nazionale statunitense di basket ad un torneo olimpico (lo vincevano ininterrottamente da Berlino 1936, anche se all'epoca schieravano solo collegiali), ma anche perché giocata durante un'epoca calda della Guerra Fredda. Pensate che venne giocata addirittura alle 23:30 per consentire al pubblico americano di seguirla in diretta. Il finale fu molto controverso: la nazionale sovietica risponde colpo su colpo ai campioni americani. Il primo tempo si chiude 26-21, vantaggio URSS, gran parte merito del grande Sergei Belov che guiderà i sovietici con 20 punti. Dopo essere stati sotto per tutta la partita, a 10" dalla fine, Doug Collins riescì ad intercettare un passaggio e ad involarsi verso il canestro. Fermato con un fallo a 3" dall'ultima sirena, segnerà entrambi i liberi, portando gli USA avanti per la prima volta 49-50. L'allenatore dell'Unione Sovietica dell'epoca, Kondrasin, si precipita al tavolo degli UdC e chiese animatamente timeout, l'arbitro lo concesse in ritardo, quando ormai rimaneva solo 1" da giocare. L'URSS effettua la rimessa e il tempo scade, facendo iniziare i festeggiamenti USA. A quel punto intervenne, dagli spalti, il Segretario della FIBA in persona, il britannico William Jones, che chiese di ripetere la rimessa, con 3" ancora sul cronometro.
A. Belov segna il canestro decisivo.
L'arbitro brasiliano Renato Righetto ne decretò quindi la ripetizione dopo aver fatto sgombrare il campo dai tifosi USA festanti. Ivan Edesko effettuò quindi un lunghissimo passaggio a tutto campo, che venne raccolto sotto canestro da Aleksandr Belov, saltato in mezzo a due avversari, che segna da mezzo metro. Finisce 51-50. Onta immensa per gli Stati Uniti. La medaglia d'argento è ancora lì: nessuno dei componenti dell'USA Team di quell'anno l'ha mai ritirata. C'è anche chi, come Kenny Davis, ha addirittura proibito sul testamento agli eredi di andarla a ritirare.


Barcellona, 8 agosto 1992 - Torneo Olimpico di Pallacanestro: Squadra Unificata - Lituania 78-82.

Il Dream Team lituano a Barcellona
La XXVOlimpiade di Barcellona del 1992 è passata alla storia per il debutto dello storico Dream Team di Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird e Charles Barkley, sicuramente la più forte squadra della storia del gioco. Ma a quell'Olimpiade c'era anche un altro Dream Team: si trattava della Nazionale della Lituania, che pochi mesi prima si era resa indipendente dall'odiata Unione Sovietica, oramai in completo disfacimento. "Sfortunatamente" i sogni di gloria della Lituania si infransero alle semifinali contro il Dream Team a stelle e strisce, che la spazzò via 127 a 76, ma il vero appuntamento con la storia, per l'orgogliosa rappresentativa baltica doveva venire due giorni dopo. Infatti, a giocare per il terzo e quarto posto l'orgogliosa squadra guidata da Sabonis (poi a Portland) e Marciulonis si trovò di fronte la Squadra Unificata, vale a dire la rappresentativa della Comunità degli Stati Indipendenti, ovvero l'erede della vecchia Unione Sovietica che aveva assoggettato e mantenuto col terrore il Paese dal 1940, nazionale nella quale erano stati costretti a giocare anche tutti i talenti lituani. La nazionale in maglia biancoverde non lasciò scampo agli ex dominatori: Marciulonis rimase in campo tutti i 40' e segnò 29 punti, Sabonis 27 catturando anche 16 rimbalzi. La Lituania aveva ottenuto la sua vendetta ed ora era pronta poteva rinascere in pace guardando in faccia con serenità il proprio futuro.

Colonia, 3 agosto 2004 - Amichevole Internazionale: Italia - Stati Uniti 95-78.

Per una notte, l'Italia è stata il vero Dream Team. A Colonia, nel corso di un'amichevole di preparazione alle Olimpiadi di Atene che termineranno per gli Azzurri in un incredibile e insperato argento dietro solo alla fortissima Argentina di Ginobili e Scola, la squadra di Carlo Recalcati infligge una lezione storica alla presuntuosa nazionale statunitense, partita con l'ambizione dell'oro, ma ribattezzata dai media USA dopo l'inglorioso terzo posto "Nightmare Team" (squadra-incubo). E' la vittoria di Pozzecco, di Basile (25), di Galanda (28), di Soragna che ripassano gli americani neanche fossero una squadra di dilettanti.
Pozzecco abbraccia Basile
Eppur schieravano gente come Odom, Boozer, Duncan e due giovani Wade e James. Pozzecco letteralmente annientò una stella di prima grandezza come Allen Iverson ("Pozzecco who?" rispose qualche giorno dopo ai giornalisti). Fu una vittoria operaia, come tutte quelle di tutte le nazionali italiane di tutti gli sport, magari prive di stelle brillanti, ma che quando sono unite difficilmente falliscono l'obiettivo. Anche se non c'è mai stata una grande rivalità sportiva tra USA e Bel Paese, è bello ricordare questa storica serata, a memoria e modello per il risultato e il cuore dimostrato dai ragazzi.


Ankara, 31 agosto 2010 - Campionato del Mondo di Pallacanestro 2010: Grecia - Turchia 65-76.

Partita del secondo turno del Mondiale 2010, che vide seconda l'ottima Turchia guidata da Tanjevic soccombere alla solita nazionale USA pigliatutto degli ultimi, e possibilmente, prossimi anni. Alla viglia della partita, il premier turco Recep Tayyip Erdogan si affrettò a specificare che "quella contro la Grecia non è una semplice partita di basket", ma evidentemente era qualcosa in più. Da tempo ormai i due paesi sono politicamente in disaccordo su tutto: un continuo crescendo di tensioni, non ultima quella relativa alla questione irrisolta dell'isola Cipro (autentica anomalia all'interno dell'UE), dove il Nord musulmano è controllato dalle forze pro-Turche mentre il Sud è a maggioranza greco-ortodossa. Ben 10.000 rumorosi turchi si precipitarono alla Ankara Arena, a fronte di soli 100/200 tifosi greci. Il tifo era incredibile, un'autentica bolgia, pronta ad esplodere a qualsiasi canestro dei padroni di casa quanto a sommergere di fischi ogni possesso greco. L'orgogliosa nazionale di Spanoulis, Bourousis e Fotsis nulla poté, di fronte ad uno strepitoso Ilyasova da 26 punti, 6/6 da 3. Vinse la Turchia, meritatamente. Ma che clima quel giorno dentro il palazzo!

mercoledì 26 giugno 2013

LeBron 2.0, ovvero come essere contenti della vittoria di Miami, pur avendo voluto fortemente la vittoria degli Spurs

Decido di cominciare questo blog, devo riconoscere con mia stessa grande sorpresa, parlando del terzo titolo conquistato nelle Finali NBA dai Miami Heat, il secondo consecutivo per LeBron James. Chi mi conosce, infatti, sa della mia passione per i Los Angeles Lakers e Kobe Bryant, e probabilmente sa anche della mia speranza (quasi "tifosa"; quasi...), nel caso specifico, nella vittoria finale dei San Antonio Spurs di Parker-Ginobili-Duncan contro la squadra della Florida. Quindi, scrivo questo commento nel tentativo di spiegare il perché di queste due "stranezze", e vorrei cominciare proprio parlando dell'emozionante serie di Finale conclusasi qualche giorno fa.
I motivi per cui tifavo Spurs hanno origini lontane, se così si può dire. Essendo di fede losangelina (aggiungiamo stranezze ad altre stranezze), non che io li possa vedere bene, in condizioni normali. Eppure, a ben pensarci, è sorprendente come la (vecchia) squadra del Texas sia riuscita a dominare tutta l'agguerrita Western Conference appoggiandosi ad un gruppo di veterani che fa 103 anni assieme e di età media fa 34,3 (i Big 3 di Miami vantano aggregati 88 primavere e 29,3, mediamente, a cranio), seppur con le note positive rappresentate da Neal, Green e Leonard (probabilmente MVP degli Spurs in quella Finale). Coach Popovic, il puntiglioso ex agente della CIA, riesce a far giocare questo gruppo di vecchiacci in una maniera fenomenale: dopo le vittorie di questa dinastia nel 1999, 2003, 2005 e 2007, sono risultati prima squadra dell'Ovest per tre anni consecutivi, dal 2011, hanno più di 20 schemi sulle rimesse, giocano a memoria, non mollano mai.
LeBron James può abbracciare il suo secondo titolo NBA.
Ed in modo assolutamente meritato.
Fossero stati loro a vincere, sarebbe quindi stata la vittoria della Pallacanestro nel vero e proprio senso della parola: il trionfo di un grande gruppo, della squadra, concetto sacro in questo sport inventato dall'indimenticabile Dottor Naismith. Sarebbe stata la vittoria del bel gioco, del duro lavoro, dell'intelligenza cestistica, del sacrificio, dell'umiltà (visti anche i protagonisti dei nero-argento). Sarebbe stata anche la vittoria di Davide contro Golia, visto che LeBron è ormai per quasi tutti (gli integralisti/fondamentalisti del Mamba, come il sottoscritto, o addirittura di His Airness sono una specie sempre più a rischio estinzione) il più forte giocatore di basket vivente, e questo, ai miei occhi - e non credo solo ai miei - valeva umanamente da solo la mia simpatia per gli Spurs.
Invece, ha vinto LeBron James.
Attenzione: mi sono volutamente astenuto dallo scrivere "hanno vinto i Miami Heat" non a caso, ma per il semplice motivo che agli occhi non solo dei tifosi della squadra di South Beach, ma del mondo intero, e soprattutto di quelli che non distinguerebbero una partita di basket da un Picasso. Quante maglie di LeBron in più vedremo nel prossimo anno nella periferia cestistica del mondo occidentale che è l'Italia? Quanta gente si proclamerà, quando non tifosa del solo "LeBron", ma "tifosa dei Miami Heat", non sapendo un accidente della storia della franchigia (o anche solo di chi fosse Alonzo Mourning)?
Questo perché, purtroppo, e senza essere colpa sua, questo rappresenta LeBron James agli occhi della massa calciomane che si diletta ad comprarsi la canottiera del Fenomeno non sapendo un accidente della palla a spicchi: lui è semplicemente il più forte e gli altri fanno pena. Punto. Non sapranno mai nulla della meraviglia messa in campo dagli Spurs, dell'incredibile serie contro Indiana e nemmeno delle fantastiche partite giocate l'anno scorso da Mike Miller o della tripla di Ray Allen in Gara-6 in quelli che probabilmente passeranno alla storia come i 28.2 secondi che hanno sconvolto il mondo, dopo i 41" che lo sconvolsero nel 1998, di Jordaniana memoria. LeBron è un fenomeno di massa, e probabilmente i non addetti ai lavori si dimenticheranno anche dei fallimenti di questo ragazzo con i Cavs, o quello bruciante del 2011, quando LeBron dopo The Decision venne annientato da WunderDirk e JJ Barea (!!!), ma non solo.
Suo malgrado, ne sono convinto, agli occhi della stragrande maggioranza della popolazione mondiale (quella che sempre, di questo sport non capirà mai niente), lui rappresenta l'individuo, ossia l'egoista che solo con la sua presenza e non passando il pallone vince le partite solo con la propria potenza e a suon di schiacciate coast-to-coast.
E invece questa serie, e più ancora quella dell'anno scorso vinta contro i Thunder, sono per me le più significative del LeBron 2.0, del suo passaggio da perdente di lusso a quello di Re. Ma le tre Finali giocate negli ultimi tre anni non sono che la punta dell'iceberg, fidatevi. Il vero e profondo cambiamento di James non è né dovuto alla forza degli Heat, né alla debolezza degli avversari: ha un luogo e una data precisa che per me si concretizzano con l'agosto 2008 in quel di Pechino, capitale della Grande Cina, durante il Torneo Olimpico di Pallacanestro ai Giochi della XXIX Olimpiade.
Quell'anno, avevo visto per la prima volta LeBron sul computer (in streaming, Sky è un lusso!!!) il 18 maggio 2008: SemiFinali di Easter Conference, Gara-7. Al TD Garden di Boston i Celtics, che poi batteranno in Finale i Lakers, si impongono 92-97 sui Cleveland Cavaliers del Prescelto, con quest'ultimo che si incarica degli ultimi tiri della squadra negli ultimi 5 minuti. 45 punti in tutto, un uomo in missione, missione fallita, poiché nel basket è complicato che ad alti livelli uno vinca contro 5 campioni che collaborano tutti insieme (c'era in campo poi anche un certo Ray Allen...). Una roba aberrante.
Invece, a Pechino, sono convinto che sia successo qualcosa. Anche se non ne ha parlato nessuno, né in Televisione, né sui giornali, sono convinto che quell'anno LeBron abbia inteso finalmente il valore del gruppo. Era un uomo al servizio della squadra: il più forte giocatore del mondo non figura nemmeno tra i primi dieci realizzatori. Haddadi dell'Iran e Holden della Russia gli sono superiori in questa statistica, eppure il nostro uomo si prodiga smazzando 3,8 assist a partita, sesto assoluto e a recuperare palloni (terzo, dietro a Prigioni e Kirilenko). Non può essere un caso se nella stagione successiva, penultima a Cleveland, si prende quasi due tiri in meno a partita (da 21,89 a 19,91) fornendo quantitativamente più assist (da 539 in 75 partite a 587 in 81) pur giocando di meno (da 40,4 minuti a 37,7 a partita). I primi passi verso un gioco meno individuale, che si confermeranno anche nell'ultimo anno ai Cavaliers, dove passerà da 7,2 a 8,6 assist in stagione. Poi, nell'estate 2010, The Decision. Questo lo ha fatto odiare da ben più di mezza America, ma lo possiamo considerare come l'ultimo peccato: la spacconata del "I will take my talents in South Beach" viene ripagata ampiamente (e meritatamente) con la lezione rifilatagli da Dirk Nowitzki alle Finali, portando all'ultimo, definitivo passo del campione. Risorto dalla sofferenza per quell'estate che dev'essere stata per lui un inferno, nella stagione 2011/2012 abbiamo visto un LeBron diverso, che giungerà poi alla maturazione nella Finale di quella stagione, contro i giovani Thunder. L'espressione di assoluta tranquillità e consapevolezza del Prescelto erano la dimostrazione dell'equilibrio psicologico e della maturità raggiunta, nella consapevolezza di poter centrare l'obiettivo, e togliersi la famosa e pesante scimmia dalla spalla.
Quest'anno, difficilmente poteva essere diverso. James ha finalmente capito quali sono i momenti in cui lui deve essere al servizio della squadra e quando la squadra ha bisogno di lui: il LeBron 2.0 culmina in quello visto in Gara-6 e Gara-7, forte, concentrato, senza forzature eccessive, che lascia anche il palcoscenico, o almeno lo condivide anche con Allen e Battier, tutto per vincere, ma di squadra, il titolo. D'altronde, Wade l'ha capito tempo fa meglio di chiunque. Per vincere, occorre essere in tanti e occorre anche sacrificare un po' se stessi per il bene comune.
Ovviamente, non sapremo mai come sarebbe andata se gli uomini di Popovic sul +5 avessero fatto almeno un fallo su un qualsiasi giocatore degli Heat, ma LeBron, finalmente, quanto scritto sopra sul sacrificio, come tanti prima di lui (chiedere a MJ e Steve Kerr), l'ha capito.
Buona rinascita, Campione. Non sarai mai più l'egoista che vinceva e perdeva da solo, e ora anche tu lo sai. Ma questo, purtroppo, i calciomani e gli esaltati non lo capiranno mai.