mercoledì 26 giugno 2013

LeBron 2.0, ovvero come essere contenti della vittoria di Miami, pur avendo voluto fortemente la vittoria degli Spurs

Decido di cominciare questo blog, devo riconoscere con mia stessa grande sorpresa, parlando del terzo titolo conquistato nelle Finali NBA dai Miami Heat, il secondo consecutivo per LeBron James. Chi mi conosce, infatti, sa della mia passione per i Los Angeles Lakers e Kobe Bryant, e probabilmente sa anche della mia speranza (quasi "tifosa"; quasi...), nel caso specifico, nella vittoria finale dei San Antonio Spurs di Parker-Ginobili-Duncan contro la squadra della Florida. Quindi, scrivo questo commento nel tentativo di spiegare il perché di queste due "stranezze", e vorrei cominciare proprio parlando dell'emozionante serie di Finale conclusasi qualche giorno fa.
I motivi per cui tifavo Spurs hanno origini lontane, se così si può dire. Essendo di fede losangelina (aggiungiamo stranezze ad altre stranezze), non che io li possa vedere bene, in condizioni normali. Eppure, a ben pensarci, è sorprendente come la (vecchia) squadra del Texas sia riuscita a dominare tutta l'agguerrita Western Conference appoggiandosi ad un gruppo di veterani che fa 103 anni assieme e di età media fa 34,3 (i Big 3 di Miami vantano aggregati 88 primavere e 29,3, mediamente, a cranio), seppur con le note positive rappresentate da Neal, Green e Leonard (probabilmente MVP degli Spurs in quella Finale). Coach Popovic, il puntiglioso ex agente della CIA, riesce a far giocare questo gruppo di vecchiacci in una maniera fenomenale: dopo le vittorie di questa dinastia nel 1999, 2003, 2005 e 2007, sono risultati prima squadra dell'Ovest per tre anni consecutivi, dal 2011, hanno più di 20 schemi sulle rimesse, giocano a memoria, non mollano mai.
LeBron James può abbracciare il suo secondo titolo NBA.
Ed in modo assolutamente meritato.
Fossero stati loro a vincere, sarebbe quindi stata la vittoria della Pallacanestro nel vero e proprio senso della parola: il trionfo di un grande gruppo, della squadra, concetto sacro in questo sport inventato dall'indimenticabile Dottor Naismith. Sarebbe stata la vittoria del bel gioco, del duro lavoro, dell'intelligenza cestistica, del sacrificio, dell'umiltà (visti anche i protagonisti dei nero-argento). Sarebbe stata anche la vittoria di Davide contro Golia, visto che LeBron è ormai per quasi tutti (gli integralisti/fondamentalisti del Mamba, come il sottoscritto, o addirittura di His Airness sono una specie sempre più a rischio estinzione) il più forte giocatore di basket vivente, e questo, ai miei occhi - e non credo solo ai miei - valeva umanamente da solo la mia simpatia per gli Spurs.
Invece, ha vinto LeBron James.
Attenzione: mi sono volutamente astenuto dallo scrivere "hanno vinto i Miami Heat" non a caso, ma per il semplice motivo che agli occhi non solo dei tifosi della squadra di South Beach, ma del mondo intero, e soprattutto di quelli che non distinguerebbero una partita di basket da un Picasso. Quante maglie di LeBron in più vedremo nel prossimo anno nella periferia cestistica del mondo occidentale che è l'Italia? Quanta gente si proclamerà, quando non tifosa del solo "LeBron", ma "tifosa dei Miami Heat", non sapendo un accidente della storia della franchigia (o anche solo di chi fosse Alonzo Mourning)?
Questo perché, purtroppo, e senza essere colpa sua, questo rappresenta LeBron James agli occhi della massa calciomane che si diletta ad comprarsi la canottiera del Fenomeno non sapendo un accidente della palla a spicchi: lui è semplicemente il più forte e gli altri fanno pena. Punto. Non sapranno mai nulla della meraviglia messa in campo dagli Spurs, dell'incredibile serie contro Indiana e nemmeno delle fantastiche partite giocate l'anno scorso da Mike Miller o della tripla di Ray Allen in Gara-6 in quelli che probabilmente passeranno alla storia come i 28.2 secondi che hanno sconvolto il mondo, dopo i 41" che lo sconvolsero nel 1998, di Jordaniana memoria. LeBron è un fenomeno di massa, e probabilmente i non addetti ai lavori si dimenticheranno anche dei fallimenti di questo ragazzo con i Cavs, o quello bruciante del 2011, quando LeBron dopo The Decision venne annientato da WunderDirk e JJ Barea (!!!), ma non solo.
Suo malgrado, ne sono convinto, agli occhi della stragrande maggioranza della popolazione mondiale (quella che sempre, di questo sport non capirà mai niente), lui rappresenta l'individuo, ossia l'egoista che solo con la sua presenza e non passando il pallone vince le partite solo con la propria potenza e a suon di schiacciate coast-to-coast.
E invece questa serie, e più ancora quella dell'anno scorso vinta contro i Thunder, sono per me le più significative del LeBron 2.0, del suo passaggio da perdente di lusso a quello di Re. Ma le tre Finali giocate negli ultimi tre anni non sono che la punta dell'iceberg, fidatevi. Il vero e profondo cambiamento di James non è né dovuto alla forza degli Heat, né alla debolezza degli avversari: ha un luogo e una data precisa che per me si concretizzano con l'agosto 2008 in quel di Pechino, capitale della Grande Cina, durante il Torneo Olimpico di Pallacanestro ai Giochi della XXIX Olimpiade.
Quell'anno, avevo visto per la prima volta LeBron sul computer (in streaming, Sky è un lusso!!!) il 18 maggio 2008: SemiFinali di Easter Conference, Gara-7. Al TD Garden di Boston i Celtics, che poi batteranno in Finale i Lakers, si impongono 92-97 sui Cleveland Cavaliers del Prescelto, con quest'ultimo che si incarica degli ultimi tiri della squadra negli ultimi 5 minuti. 45 punti in tutto, un uomo in missione, missione fallita, poiché nel basket è complicato che ad alti livelli uno vinca contro 5 campioni che collaborano tutti insieme (c'era in campo poi anche un certo Ray Allen...). Una roba aberrante.
Invece, a Pechino, sono convinto che sia successo qualcosa. Anche se non ne ha parlato nessuno, né in Televisione, né sui giornali, sono convinto che quell'anno LeBron abbia inteso finalmente il valore del gruppo. Era un uomo al servizio della squadra: il più forte giocatore del mondo non figura nemmeno tra i primi dieci realizzatori. Haddadi dell'Iran e Holden della Russia gli sono superiori in questa statistica, eppure il nostro uomo si prodiga smazzando 3,8 assist a partita, sesto assoluto e a recuperare palloni (terzo, dietro a Prigioni e Kirilenko). Non può essere un caso se nella stagione successiva, penultima a Cleveland, si prende quasi due tiri in meno a partita (da 21,89 a 19,91) fornendo quantitativamente più assist (da 539 in 75 partite a 587 in 81) pur giocando di meno (da 40,4 minuti a 37,7 a partita). I primi passi verso un gioco meno individuale, che si confermeranno anche nell'ultimo anno ai Cavaliers, dove passerà da 7,2 a 8,6 assist in stagione. Poi, nell'estate 2010, The Decision. Questo lo ha fatto odiare da ben più di mezza America, ma lo possiamo considerare come l'ultimo peccato: la spacconata del "I will take my talents in South Beach" viene ripagata ampiamente (e meritatamente) con la lezione rifilatagli da Dirk Nowitzki alle Finali, portando all'ultimo, definitivo passo del campione. Risorto dalla sofferenza per quell'estate che dev'essere stata per lui un inferno, nella stagione 2011/2012 abbiamo visto un LeBron diverso, che giungerà poi alla maturazione nella Finale di quella stagione, contro i giovani Thunder. L'espressione di assoluta tranquillità e consapevolezza del Prescelto erano la dimostrazione dell'equilibrio psicologico e della maturità raggiunta, nella consapevolezza di poter centrare l'obiettivo, e togliersi la famosa e pesante scimmia dalla spalla.
Quest'anno, difficilmente poteva essere diverso. James ha finalmente capito quali sono i momenti in cui lui deve essere al servizio della squadra e quando la squadra ha bisogno di lui: il LeBron 2.0 culmina in quello visto in Gara-6 e Gara-7, forte, concentrato, senza forzature eccessive, che lascia anche il palcoscenico, o almeno lo condivide anche con Allen e Battier, tutto per vincere, ma di squadra, il titolo. D'altronde, Wade l'ha capito tempo fa meglio di chiunque. Per vincere, occorre essere in tanti e occorre anche sacrificare un po' se stessi per il bene comune.
Ovviamente, non sapremo mai come sarebbe andata se gli uomini di Popovic sul +5 avessero fatto almeno un fallo su un qualsiasi giocatore degli Heat, ma LeBron, finalmente, quanto scritto sopra sul sacrificio, come tanti prima di lui (chiedere a MJ e Steve Kerr), l'ha capito.
Buona rinascita, Campione. Non sarai mai più l'egoista che vinceva e perdeva da solo, e ora anche tu lo sai. Ma questo, purtroppo, i calciomani e gli esaltati non lo capiranno mai.

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